Anno C – II Domenica di Pasqua

At 4,8-24a Sal 117 (118) Col 2,8-15 Gv 20,19-31

Parlando con i ragazzi, qualche volta mi è capitato di affrontare l’argomento della “fede cristiana”.
A dire il vero, pur passando molto tempo con loro – anche per il fatto che insegno in una scuola – e pur discorrendo con loro proprio di tutto (film, politica, musica, computer ecc.) ho constatato che è quasi imbarazzate, direi un vero e proprio tabù, parlare di “fede”. Se si inizia l’argomento – a parte il fatto che (si sà) è già visto come “mestiere del prete” – ma dico, a parte questo, si ha l’impressione di scavalcare una soglia privata, intima, imbarazzante perché riguarda in fondo qualche cosa di indicibile che ognuno ha per sé nel suo cuore. Voler parlare di fede – quando non è noioso o non è “roba del prete” – produce oggi un certo imbarazzo, un vuoto di parole e di idee riempito al massimo di qualche slogan comune del tipo “è importante essere liberi di credere”, “credere è amare”, “avere fede è un dono” ecc.(per davvero detto in modo neanche troppo convinto).
Ma ho scoperto questo: non è una sensazione che si ha soltanto parlando con i ragazzi. Tra le persone per bene (in una cena o per strada) si può sempre parlare di tutto, ma di tre cose è sempre meglio non parlare: della morte, della matematica (comprensibile) e della fede. Ricordatelo se non volete produrre conversazioni imbarazzanti!
Volete una conferma: provate a ricordare, qui ora e anche i ragazzi, quando è stata l’ultima volta che avete parlato a qualcuno della vostra fede cristiana?
Ci sono genitori – ahimé – che portano i figli a catechismo e perdono un sacco di tempo per accompagnarli e andarli a prendere e organizzare le loro agende, ma mai si sognerebbero alla sera a tavola di raccontargli perché loro credono, che cosa è per loro la fede cristiana – e di aspettarsi su questo delle parole dai propri figli, oltre che sulla scuola, sulla ragazza ecc… Per alcuni è davvero troppo imbarazzante, anche se si viene qui tutte le domeniche da una vita, quasi non si sentissero capaci…
Ad ogni modo, qualche volta sono riuscito a rompere questo muro di imbarazzo e di incapacità. E oltre questo muro mi sono accorto che questa pagina del Vangelo di oggi è spesso presa come un simbolo (imbarazzante) della nostra fede cristiana.
E vi confesso: questi sono i momenti del mio sconforto maggiore. Quando un ragazzo dice che in fondo la “fede” è credere cose che non si vedono. Poi quelli che vogliono far vedere di aver letto la Bibbia aggiungono: “vedi don come Gesù che dice a Tommaso beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. E la fede sarebbe questo cieco affidamento, per una cosa che non si “deve vedere”, perché sarebbe già un metterla in dubbio, pretendere di vedere qualche cosa.
Ripeto: sono i momenti del mio sconforto maggiore. Ho l’impressione che se uno la pensa così (e quanto è diffuso questo pensiero!) si troverà sempre lontano chilometri dal Vangelo Cristiano. Se fosse così, “amare Gesù” sarebbe poprio amare un fantasma invisibile. Ma chi può amare una cosa che non si vede? Chi può amare senza aver mai visto, senza toccare, abbracciare – senza capire?
E questa idea di fede produce anche una grande amarezza e nostalgia. Forse viene proprio da qui il nostro imbarazzo e mutismo sulla di fede: se la fede è amare una cosa invisibile, anche il mio amore diventa invisibile, privo di parole, una cosa muta del sentimento personale.
Vorrei che capiste come suona piena di amara nostalgia la frase di un ragazzo che ripete “beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. Perché è in fondo come se dicesse: beati quelli che riescono a essere così matti a credere nei fantismi che non si vedono. Io devo poter vedere per credere e mi piacerebbe anche credere senza vedere. Ma io sono fatto così.
Povero ragazzo: non sa che lui stesso ha ragione. Hai ragione: per credere qualcosa bisogna vedere. Bisogna parlare, discutere, raccontare.
E anche povero Tommaso e povero Gesù, che sono stati così tanto fraintesi. Ti pare che c’era bisogno che Gesù risuscitasse se poi bisognava credergli anche senza vederlo?
Ma Gesù non voleva dire questo, non voleva dire che saranno beati quelli che crederanno senza averlo incontrato risorto. Perché – sappiatelo – non c’è fede cristiana senza aver fatto l’esperienza di una particolare Presenza che è proprio il Risorto (per quanto scandaloso suoni).
Poche pagine prima “il discepolo che Gesù amava” corse al sepolcro e vide delle bende avvolte (la sindone) ma non vide il corpo. Poi c’è scritto “vide e credette”. Non vide il Signore con i chiodi ma vide le bende ed è come se gli bastassero le bende per capire che il Signore era risorto, che quell’uomo era più grande della morte. Non vide il corpo – vide le bende – ma gli bastò questo.
Ora il Signore, è come se dicesse a Tommaso “beato quell’apostolo Giovanni che gli sono bastate le bende per ricordarsi di me e di quello che avevo detto”. E poi rivolto a Tommaso dicesse: ora che mi vedi (tu che non hai visto le bende) devi diventare un credente e non un non credente. Ora che mi vedi, diventa credente.
Tanti tra noi hanno avuto la grazia – vivendo qui in oratorio o in parrocchia, o mangiando a casa di un prete – di riconoscere il Signore. Forse da ragazzi, forse quando qualcuno si era preso cura di lui, inaspetatamente. Senza vergognarsene.
Basterebbe raccontare questo, vedere questo! Così la fede non sarebbe più quella magia nera che hanno così pochi eletti, ma si scoprirebbe che – senza saperlo – ha riempito le nostre conversazioni serali più belle le nostre speranza più vere della nostra vita.