Domenica che precede il Martirio del Precursore

2Mac 6,1-2.18-28; Sal 140; 2Cor 4,17-5,10; Mt 18,1-10

Dobbiamo approfondire questo richiamo di Gesù a ritornare bambini. Il testo colloca queste parole nel quadro evidente di una conversione e di una istanza etica forte: abbandonare definitivamente (tagliando) il male e lo scandalo. Non è dunque un tornare bambini nella semplice spensieratezza, nella incapacità di distinguere bene e male.
Cosa significa dunque questo richiamo ai piccoli, parola che si potrebbe tradurre anche con “ragazzi” o “garzoni”?

Rispondo subito esprimendo il mio pensiero: la percezione in noi di una costante e insuperabile immaturità, povertà e piccolezza permette di vivere una reale esperienza di fede e di scoprirne tutta la fecondità.
Un paradosso che potremmo esprimere così: per essere veramente adulti secondo il Vangelo è necessario riconoscere il bambino che è in noi, non per superarlo, ma per confermarlo. Percepire che tutto quanto ci porterebbe ancora ad ammettere che siamo ancora immaturi, che siamo piccoli agli occhi degli altri, nasconde in realtà un germe salvifico della grazia, una domanda preziosa.

Questo significa anche cancellare un mito: il Vangelo non parla di uomini perfetti, maturi, adulti, realizzati, equilibrati, seri… come fosse questo il destino della nostra esistenza compiuta. Molte vite di Santi sono una conferma di questo: anche nei Santi troviamo caratteri infantili, aggressivi o non proprio del tutto “a posto”. Anche il Vangelo di settimana scorsa sfata il mito di un Gesù sempre acconsenziente ed equilibrato, privo di quella “immaturità” che è l’ira o la rabbia.

In effetti, l’ansia della perfezione è figlia della efficienza che ultimamente deriva dall’orgoglio. Anche noi cristiani abbiamo spesso confuso il cammino verso la santità come la realizzazione di un uomo compiuto e maturo, ideale e perfetto. Questo è un grande moralismo. Ritrovarsi uomini quando si scopre Cristo non significa affatto essere arrivati alla maturità di un uomo ideale.

Rimane una domanda: perché la nostra immaturità può essere un bene prezioso, o persino necessario, proprio alla luce del Vangelo? Non è questo soltanto un paradosso inutile e segno di una contraddizione nei nostri discorsi cristiani? Io penso non sia così.

Vorrei rispondere con un esempio per non fare un discorso teorico.
Mi capita ogni tanto di confessare degli adulti, magari un padre di famiglia o un lavoratore sui cinquant’anni. Magari un professionista con tanto di giacca e cravatta che inizia la confessione con parole del tutto di circostanza e riferendo peccati del tutto “innocui”, spesso senza “lasciarsi andare” a un contatto più profondo con sé stesso… poi però, ogni tanto, avviene qualcosa. Sembra che quella persona esca dal ruolo sociale e che accetti di entrare un poco di più nel profondo della sua vita spirituale. A quel punto, quando gli domando della preghiera, afferma risposte del tipo: “sa… in macchina, mentre guido, io al Signore gli do del tu, a volte me la prendo anche, gli parlo di me”. Non si tratta solo di contenuto. Il racconto ha assunto un registro diverso, tra il pudore e l’intimità e persino la voce è più infantile.
Se faccio il bambino e non sono più del tutto quello in giacca e cravatta, ecco che posso: se parlo con Dio, sento che magari sono diventato un poco pazzo, ma ai bambini è concesso tutto. E questo fa un gran bene alla persona, questo tornare a uno stato meno adulto di sé, ora attraverso un gioco ora attraverso il dialogo interiore della preghiera, è l’unico modo per unificare la nostra persona, sentirla un po’ meno schizofrenica.
In effetti, pregare, mettersi in ginocchio, è un fatto che chiede di tornare “bambini”, di “regredire”. Chi è cresciuto troppo, chi si vergogna a cantare, chi fa l'”adulto”, c’è il caso che non sia capace di questa preghiera o che la renda una recita. In ogni caso ciò che conta è che siamo in grado di accogliere quella capacità di pregare che solo un po’ di “immaturità” ci può dare.

Faccio un secondo esempio che riguarda l’ansia. Una delle grandi difficoltà dei ragazzi sembra essere quella di saper gestire l’ansia. Sembra davvero abbiano ansia per tutto: l’ansia della scuola, del compito, del lavoro, della ragazza, del genitori ecc. ecc. Inoltre, quanto più una persona è insicura, tanto più è difficile che essa acquisti sicurezza: abbiamo tutti sperimentato quanto sia inutile rassicurale, anzi, a volte anche controproducente, perché in qualche modo non impareranno mai a camminare con le loro gambe.
L’idea allora di abolire l’ansia è molto diffusa. L’idea di prendere qualcosa (da una birra a uno psicofarmaco) per riuscire a sentire meno questo fastidio non è un’azione remota. Eppure c’è un paradosso. Viviamo in una società che investe moltissimo sull’emozionale e poi, quando disturba troppo, cerca di separarlo dalla realtà. Vediamo un film che ci fa commuovere fino alla lacrime ma poi spegnamo la televisione e da quelle emozioni siamo subito fuori.
Una cosa è certa: non è facile e a volte quasi impossibile padroneggiare l’ansia a meno di non scollegarci continuamente dalla realtà. Il guaio è anche che un comportamento ansiogeno, se impara a separarsi dalla realtà, non viene meno, ma si rafforza: perché conferma una insicurezza.
Eppure, c’è un altra strada che sarebbe quella di trattenere e non di eliminare la nostra ansia. Essa, anziché ricacciarla al minimo, come ci immagineremmo un adulto che non ha di questi problemi, potremmo usarla: come spazio in cui sentiamo il mondo e i suoi problemi veri. Perché non pensare che quell’ansia da bambini non sia il modo per aprire sé stessi emotivamente (ma l’emozione è anche una conoscenza) a quel mondo che non vogliamo così distante?
Percorrere questa strada significa anche sperimentare che si è dipendenti da altri, che nelle nostre relazioni non siamo sempre noi a tenere in mano la regia del legame. Ma tutto questo può salvaguardare dalla in-affettività, dalla freddezza, dal menefreghismo.

Ecco perché è proprio la nostra immaturità, la nostra picolezza, il nostro cuore inquieto e ansioso, “non solo adulto”, che ci permettono un contatto evangelico con il mondo, quella protensione e quello sguardo che vediamo anche nel Signore Gesù così spesso preoccupato (fino alla croce) per le persone che incontra nel suo cammino. Non soltanto guardando e giudicando questo mondo e questi uomini, ma invece sentendolo davvero e appassionandoci ad esso.