II Domenica di Pasqua

At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31

I brani di Vangelo di queste domeniche sono le scene del riconoscimento del Risorto. Faccio due osservazioni su questo tema.

1) Nei testi dei Vangeli, in tutti i racconti di apparizione, c’è poca attenzione sul “come” appare e molta sul fatto che sia proprio lui (i segni dei chiodi). E’ un viandante, è un giardiniere, è un uomo sulla riva di una spiaggia che prepara la brace… Del resto, aveva insegnato prima di morire che sarebbe stato persino nel povero al quale si dava un bicchiere d’acqua (Mt 25).
Perché non è così rilevante il “come” del suo apparire? Anzitutto perché la sua resurrezione non ha a che fare con la rianimazione di un cadavere. Gesù non è un cadavere rianimato, ma una presenza nuova e diversa nella storia. Tanto è vero che i discepoli non usano solo il vocabolo “resurrezione”, ma parlano anche di “glorificazione”, “innalzamento” ecc. E’ la conferma che quella storia non è finita con la morte e che Dio ha compiuto un gesto ulteriore.

In secondo luogo, dobbiamo dire che riconoscerlo presente non è la conseguenza di un ragionamento né una interpretazione che facciamo… il riconoscerlo presente appare come una fatto certo e improvviso per chi lo ha vissuto, come un dato della storia con una sua evidenza propria e non come un discorso filosofico.
E’ qualcosa che “Dio fa” e non qualcosa che “Dio dice” e che potremmo sempre aver capito male, interpretare in modi diversi o esserci sbagliati. Chi lo riconosce sa che non si è sbagliato. Chi non lo riconosce o non crede alla testimonianza dei cristiani non potrà essere forzato a farlo con dei discorsi logici perché è di un fatto storico che stiamo parlando.
Questo vale anche per noi: se ci pensiamo, quando una persona sta male, non vuole semplici interpretazioni del suo dolore, o ragionamenti umani, ma vuole una risposta da Dio, vuole che Dio faccia qualcosa nella sua vita.
Questa è la differenza tra la religione Cristiana, che guarda a cosa accade nella vita, e la semplice filosofia.

2) Tutti i racconti delle apparizioni di Cristo dicono che questo riconoscimento avviene però a una condizione. Alla condizione di capire il suo morire. Così alla tomba con Maria, così con Tommaso (che deve vedere i segni della passione), così per i discepoli di Emmaus. Ma capire il suo morire significa aver capito la logica della sua vita, la logica che una vita così è la vita stessa di Dio. Solo avendo molto amato il Gesù della storia e aver compreso che un giusto così “doveva morire”, allora, quando apparirà, lo si potrà riconoscere ancora presente.

C’è un testo molto bello e molto importante di un ebreo non cristiano, Giuseppe Flavio che ha scritto nel I sec. d.C. la storia del popolo giudaico e che a proposito di Gesù dice, dopo averlo introdotto storicamente: “… fu ucciso dai nostri capi. Ma coloro che lo avevano amato, non per questo smisero di amarlo. E la setta dei cristiani non è estinta nemmeno oggi”.
E’ la testimonianza più bella della resurrezione per chi non è credente, ma è anche una frase che ci ricorda che se molte volte non lo riconosciamo è solo perché non lo abbiamo neanche davvero conosciuto. Non ci siamo così interessati a lui, non lo abbiamo davvero amato. Molte volte non abbiamo neanche desiderato, come Tommaso, di mettere il dito nelle sue piaghe e nel suo costato, perché –in verità– sappiamo ben poco di Lui.