IV Domenica di Avvento

La questione della venuta del Signore ha a che fare con un lavoro dei discepoli. Essi devono seguire il comando di Gesù che li invita ad andare a prendere un puledro lungo la strada. Il comando è così importante che viene descritto due volte nel testo: sia come indicazione del Signore sia come esecuzione dei discepoli. Questa insistenza non mi sembra causale.

Riprendiamo il filo delle nostre riflessioni, settimana scorsa il cammino di avvento ci suggeriva di uscire dall’immediatezza. Oggi il vangelo sembra chiederci la fiducia di eseguire un comando del tutto nuovo e forse anche un po’ strano. La fiducia che ci fa accorgere che c’è altro rispetto a quanto pensavamo. Come può infatti venire il Signore Gesù se non desideriamo nulla più di nuovo che venga a ci stupisca? Come più arrivare una grazia se si ha paura della novità o la si crede sempre negativa? Perché oggi domina questo: “la novità è negativa e temuta”.

Invece, il vangelo insegna che c’è qualcosa di nuovo e anche apparentemente strano, c’è un comando che non sai a cosa serve (magari ti sembra assurdo). Ma se non ti fidi di una novità, come stupirsi ancora? come desiderare ancora? come sperare ancora? Dobbiamo accorgerci invece che c’è altro e c’è del nuovo senza paura, per capire che il Signore viene.
Certo, dobbiamo anche sapere dove guardare per aspettarci del buono dal nuovo: se abbiamo sempre lo sguardo verso le notizie del mondo non vedremo nessun comando del Signore che ci indirizzerà da qualche parte. Se guadiamo alla politica, all’economia, al clima internazionale… cosa avremo da sperare? Ma questo accadeva anche 2000 anni fa ai discepoli: se guardavano l’impero romano con tutte le sue tasse e guerre, cosa avevano da sperare o da desiderare?
Invece, i discepoli sono invitati a guardare quello che di nuovo e di buono possono fare loro. Non quello che si devono attendere dal mondo o dagli altri. Quello che accadeva di miracoloso accadeva anzitutto dentro di loro, nel loro modo di pregare, di vivere assieme, di avvicinare i malati, di pensare a Dio. Questa è la novità che dobbiamo guardare e dalla quale abbiamo modo di sperare con favore che il Signore certamente verrà! Perché è anzitutto da noi stessi, dalla nostra solitudine, dal nostro sentirci in balia di un destino cattivo che dobbiamo smettere di avere paura.

Alessandro Baricco, alla fine degli anni ’90, aveva scritto un bel monologo, divenuto un libro e poi un film: “Novecento”, mentre il film si intitola “La leggenda del pianista sull’oceano”. La storia racconta di un pianista nato e cresciuto su una nave da crociera. Questo protagonista ha senza dubbio una dote eccezionale di musicista e supera di gran lunga tutti i pianisti esistiti sulla terra ferma. Tuttavia, non vuole scendere dalla nave. Mentre il racconto va avanti, si capisce che Novecento (è questo il suo nome) non è una persona felice. Potrebbe scendere, ma la paura di scegliere nelle infinite possibilità della vita reale lo blocca. La paura di questa novità è schiacciate e preferisce la regolarità di viaggi di andata e ritorno, affollati di persone diverse, ma in fondo sempre uguali. Tuttavia, per non essere ucciso dai suoi desideri spontanei che nascevano in lui (il desiderio di avere una famiglia, una ragazza ecc.) trova una tecnica per farli morire, uno ad uno, lasciandoli dietro di sé.

Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio.
Non sono pazzo, fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. Siamo astuti come animali affamati. Non c’entra la pazzia. È genio, quello. È geometria. Perfezione. I desideri stavano strappandomi l’anima. Potevo viverli, ma non ci sono riuscito. Allora li ho incantati. E a uno a uno li ho lasciati dietro di me.
Tutte le donne del mondo le ho incantate suonando una notte intera per una donna, una, la pelle trasparente, le mani senza un gioiello, le gambe sottili, ondeggiava la testa al suono della mia musica, senza un sorriso, senza piegare lo sguardo, mai, una notte intera, quando si alzò non fu lei che uscì dalla mia vita, furono tutte le donne del mondo.
Il padre che non sarò mai, l’ho incantato guardando un bambino morire, per giorni, seduto accanto a lui, senza perdere nulla di quello spettacolo tremendo bellissimo, volevo essere l’ultima cosa che guardava al mondo, quando se ne andò, guardandomi negli occhi, non fu lui ad andarsene, ma tutti i figli che mai ho avuto.
La terra che era la mia terra, da qualche parte del mondo, l’ho incantata sentendo cantare un uomo che veniva dal nord, e tu lo ascoltavi e vedevi, vedevi la valle, i monti intorno, il fiume che adagio scendeva, la neve d’inverno, i lupi la notte, quando quell’uomo finì di cantare finì la mia terra, per sempre, ovunque essa sia.
Gli amici che ho desiderato li ho incantati suonando per te e con te quella sera, nella faccia che avevi, negli occhi, io li ho visti, tutti, miei amici amati, quando te ne sei andato, sono venuti via con te.
Ho detto addio alla meraviglia quando ho visto gli immani iceberg del mare del Nord crollare vinti dal caldo, ho detto addio ai miracoli quando ho visto ridere gli uomini che la guerra aveva fatto a pezzi, ho detto addio alla rabbia quando ho visto riempire questa nave di dinamite, ho detto addio alla musica, alla mia musica, il giorno che sono riuscito a suonarla tutta in una sola nota di un istante, e ho detto addio alla gioia, incatenandola, quando ti ho chiesto di entrare qui.
Ho disarmato l’infelicità. Ho sfilato via la mia vita dai miei desideri.

Smettere di desiderare perché si ha paura del nuovo sarebbe il modo migliore per non slegare mai quel puledro che attende soltanto che crediamo al comando del Signore.