IV Domenica di Avvento

Is 4,2-5; Sal 23; Eb 2,5-15; Lc 19,28-38

Riprendo sinteticamente il cammino che stiamo facendo in queste domeniche di Avvento. Almeno nei tempi forti, tutti noi vorremmo fare un vero percorso cristiano attraverso i Vangeli che ascoltiamo e non soltanto “assolvere” al precetto della domenica.

Eravamo partiti due domeniche fa a riflettere sulla parola “Evangelo” e ci chiedevamo: perché Gesù Cristo dovrebbe essere un buona notizia (un Evangelo)? Quando questo accade?
Allora dicevamo, commentando il “preparare la strada” di Giovanni Battista (era l’inizio del Vangelo di Marco), che è necessario anzitutto che “Dio sia una notizia” perché “Gesù Cristo sia una buona notizia”. Ovvero, è fondamentale che ognuno si accorga che senza un “Dio”, senza un “Tu” al quale rivolgersi, si diventa meschini, utilitaristici e alla fine, senza questa nostalgia di Dio, “non ce la si fa” nella vita. “Non ce la fa” nel senso che si devono trovare strategie di fuga, ci si deve abituare a vivere con una certa rassegnazione. Significa che tutti nel cuore abbiamo questo “desiderio di un Dio”, come desiderio di una felicità che non sta in mano nostra, anche quando non vogliamo nominarla.
Per esempio, tutti percepiamo che quello che si cerca nel proprio amico o in propria moglie è molto di più che uno stare bene insieme frutto del caso oppure una persona comoda che prepari la minestra. La bellezza di quella compagnia vive di un desiderio di felicità profondo, di una mancanza e di una solitudine che si svela a noi stessi ogni volta che incrociamo la profondità dello sguardo dell’altro. Desiderio e solitudine che abita davvero tutti noi.

Domenica scorsa aggiungevamo un passo ulteriore grazie al Vangelo dei discepoli di Giovanni che vanno a chiedere al Signore “sei tu il Cristo?”.
Non è solo la mancanza del “senso religioso” (il desiderio di Dio), ma anche lo stare lontani dalla scena del Vangelo di Gesù (lo “stare in carcere” come per Giovanni Battista) che non ci permette di riconoscere in Gesù la buona notizia. E la scena del Vangelo non è Gesù stesso e neppure “una cosa”, ma l’esperienza di una liberazione del male, di una amicizia, di una compagnia salvifica. Questa esperienza è al di fuori di ogni etichetta (partito, parrocchia o movimento) e abita ogni gesto che veramente libera una persona dalla solitudine, dalla povertà, da un non senso, da una noia.
Questo significa che se una persona non ha mai fatto questa esperienza, perché magari ha incontrato la suora sbagliata o il prete sbagliato o l’oratorio sbagliato, per lui la parola “Gesù” non significherà nulla o nulla di cristiano. Perché è una parola che non è legata alla scena del Vangelo: un inaspettato incontro bello, di uno che si è preso cura di me!

Il Vangelo di oggi aggiunge un altro passo per riconoscere Gesù come buona notizia nella vita.
Esso racconta di due azioni fatte dai discepoli in modo molto inconsapevole. Nella prima, due discepoli vanno a prendere un puledro e non sanno bene perché, ma sanno solamente “che Gesù ne ha bisogno”. L’essenzialità di questo comando senza una vera spiegazione viene ripetuto due volte. I due discepoli forse non hanno capito o non sanno tutto e non si mettono a spiegarlo a chi incontrano. Gesù stesso gli dice che basterà dire: “Gesù ne ha bisogno”. Anche a loro, forse, gli basta sapere che “Gesù ne ha bisogno”.
Compiono il gesto in obbedienza. Lo fanno perché è un atto buono, perché vogliono bene al loro maestro, perché in fondo gli sembra giusto… così chiedono anche di fare a chi presterà quell’animale.

Anche i discepoli che lo acclamano e stendono in mantelli per la strada, allo stesso modo, non hanno molta consapevolezza di quello che stanno facendo. Potremmo infatti domandarci: non hanno per nulla capito che Gesù va a morire? E Gesù non gli aveva ammoniti tante volte che lo attendeva la Croce e non un re politico alla ricerca di applausi?
Ancora una volta, i discepoli non hanno capito chi è Gesù e non l’hanno capito nella loro vita così come anche noi fatichiamo a capirlo. Ognuno fatica oggi a dire chi sia il Signore che ogni giorno ci viene incontro. Ma compiono ugualmente il gesto, compiono lo stesso il loro atto di fede e sanno che è giusto: stendono i loro mantelli e si mettono in ginocchio. Luca sembra dire che lo fanno davvero come un atto di fede che – pur non riconoscendo ancora davvero Gesù – sanno che è doveroso farlo.

Accadrà dopo che capiranno. Ma quel gesto buono (come anche ingenuo) servirà per la loro sequela, sarà anch’esso atto di fede. In quel momento della loro storia, affidarsi così a Gesù pur senza riconoscerlo davvero, non era una fede da meno. Era, in quel momento, il loro modo di seguire Gesù. E valeva anche molto perché in quel gesto sfidano i farisei del tempo e sfidavano la religione del tempo.
Così forse – permettetemi il paragone – il gesto dei ragazzi che oggi sono qui che sfidano i loro compagni che li prenderebbero in giro a vederli anche loro in ginocchio davanti a questo pane. E potremmo dire che sono proprio come questi discepoli perché anche loro fanno tutta la loro fatica (spesso ci arriveranno dopo anni) a riconoscere davvero Cristo nella vita. Ma il loro gesto oggi li salva, l’essere qui con fede oggi li salva.

Se Gesù è una buona notizia per noi, è necessario anche che ci fidiamo di Lui, che gli restiamo vicini nel suo racconto, nel suo modo di fare, nel nostro affetto, anche se a volte non sappiamo bene perché e intuiamo che è solo giusto o che di questo – di questa telefonata, di questa preghiera, di questa Messa, di questa mia fatica – “il Signore ne ha bisogno” e nulla di più… anche la fede più semplice di un bambino può farlo e sapere che è giusto.